2 aprile 2011

L'insegnante d'inglese

Era passato un anno da quando aveva iniziato a dare lezioni d'inglese a Palermo.
Erano passati sei mesi da quando il padre del ragazzo gli aveva un giorno casualmente chiesto se fumava erba. Il tono era stato strano: era quello di chi proponeva, volontariamente mal mascherato da paterna curiosità sul sociale. D'altra parte, l'uomo sembrava certamente di stampo tradizionale, ma con una pancia, un'aria vissuta, un sorriso e gli occhi stretti e blu che dicevano che la vita, in qualche modo, se la godeva, e che occasionalmente avrebbe privilegiato il piacere alla morale o perfino alla legge. Fu non tanto una certezza sul tipo di vizio che prediligesse, quanto la certezza del mutuo rispetto che intercorre discreto ma chiaro tra viziosi a tranquillizzare l'insegnante sulla natura della domanda. 
In quel momento, all'insegnante si prospettò una scelta piccola ma importante.
Non era né del posto, né dell'isola ed era anche troppo cosciente di dover sempre badare
a cosa dicesse e a chi: rispose "Di quando in quando". Saranno state le tre di pomeriggio, era fine aprile
e quel giorno c'era una frescura nel vecchio salotto, una pace, che fece sì che per un attimo più lungo del solito si protraesse il silenzio. Poi sorrise, il padre, e l'insegnante, goloso, proseguì: -...ma ho un amico che fuma.
Era passato un anno e ora si trovava nella stessa sala e lo stesso sole donava un tono dorato ma un po' triste al legno scuro dei mobili, dove la luce filtrava dalle fessure tra le tende. Era quel foglio sulla scrivania che l'insegnante ora fissava, proprio al fondo, dove, sorpa una riga, doveva mettere la sua firma.
Lo stesso uomo, il padre del ragazzo a cui dava lezioni d'inglese, era seduto davanti a lui. Era l'insegnante a sedere nella poltrona di pelle; era un signore sui sessant'anni, appena un po' basso, virile, forte e abbronzato, a stare in piedi sul tappeto davanti alla scrivania. Casualmente il ragazzo pareva il dirigente e il vecchio il questuante. L'insegnante, prima che arrivasse il suo futuro collega nella nuova società, aveva passato la mattinata a riguardare il contratto e, ora che lui era arrivato, era giunto il momento di firmare; prima, però, c'era una domanda difficile da fare, un chiarimento inprescindibile, qualcosa che doveva essere chiesto, perché nessun accertamento né fiscale né giudiziario avrebbe mai potuto veramente dare al giovane imprenditore una certezza, ma quantomeno e per quanto antipatico e spiacevole fosse, domandare avrebbe chiarito, eprché ancora quella è una terra dove la parola conta, ma anche dove le domande non devono mai essere fatte con il punto interrogativo in fondo. Allora disse:
- C'è un teatro, in Sicilia, molto diffuso, nel quale spesso la gente finisce per recitare senza rendersene conto.
L'uomo, che aveva un bicchierino d'amaro e stava con l'altra mano in tasca e il naso all'insù a guardare annoiato la libreria scorrendone con gli occhi i titoli, alzò gli occhi come destato da un torpore, si riempì l'amaro e si sedette comodo sul divano: si era da subito creato, tra i due, un'intesa ironica e falsamente formale, fatta di sorrisi intimi come quelli degli uomini a caccia di donne.
- Io non vorrei mai scoprire di fare parte di questo teatro. Preferisco morire, perché l'odore che c'è dove si tengono i suoi spettacoli è il tanfo della putrefazione. 
L'uomo capì perfettamente, ma si sentì offeso; tuttavia non lo diede a vedere, perché capiva che, per uno straniero, non c'era veramente modo di distinguere, di sapere, di capire. Non poteva capire come funzionavano gli sguardi per le precedenze, le minime alzate di mento, così come non avrebbe mai distinto con certezza tra le maniere mafiose e l'essere un mafioso. Pensò anche a quanto egli stesso non avesse diritto di scandalizzarsi: non era forse fin troppo comune scoprire dopo vent'anni di aver fatto affari con mafiosi?
Eppure, si sentì offeso; tuttavia, non lo diede a vedere.